Museo di Scienze Archeologiche e d'Arte

Salette archeologiche

 

Le dodici salette centrali del museo espongono collezioni molto eterogenee e in molti casi prive di contesto perché derivanti da raccolte di tipo collezionistico e non da scavi regolari. Nel nuovo allestimento i materiali sono stati pertanto riaggregati per insiemi culturali e cronologici che potessero fornire, in sintesi, un quadro generale per ogni ambito culturale documentato:
- civiltà del mediterraneo orientale ed Egitto antico con un approfondimento sugli scavi padovani nell’oasi del Fayum, villaggio di Tebtynis, negli anni '30;
-civiltà greca nelle sue molteplici espressioni topografiche (continentale, insulare, Magna Grecia) e cronologiche (dal Bronzo cipriota all'età ellenistica);
- popolazioni italiche (Apuli, Etruschi, Veneti);
- Roma, con approfondimento su Padova romana.
Una delle salette ospita infine l’archivio e il catalogo informatizzato.

Per quanto riguarda i reperti da collezione, si segnalano la storica collezione Neumann e un lotto di materiali dalla collezione Gorga che hanno arricchito il museo di ceramiche magnogreche, etrusche e romane. Recente (2006) è invece la donazione della collezione dei coniugi Michelangelo Merlin e Oplinia Hieke che hanno destinato all’Università la loro raccolta privata di antichità, regolarmente notificata. La collezione comprende 138 oggetti tra vasi greci, magnogreci ed apuli, statuine fittili, bronzi, pochi vetri e monete, qualche reperto pre-protostorico. Ai reperti più significativi della collezione sono state dedicate tre salette, rispettivamente la sala n.3 per la ceramica geometrica apula; la sala n.4 per i vasi greci e la sala n.6 per i reperti vascolari ma anche le monete e la coroplastica di area magnogreca. Il contributo, prezioso, di questa collezione ha consentito di riallestire completamente queste tre sale con reperti decisamente importanti e significativi, sia dal punto di vista didattico che scientifico. Per quanto riguarda invece i materiali pre-protostorici e romani della collezione, data la loro esigua consistenza, sono stati inseriti nei percorsi espositivi preesistenti, fornendo, in ogni caso, utili ed interessanti integrazioni.

Non mancano tuttavia reperti e collezioni da scavo. Si segnalano in particolare tre steli da Padova e suburbio, alcuni reperti emersi dagli scavi dei cantieri edilizi di Bo e Liviano negli anni ’30 del Novecento e una campionatura di tombe scavate negli anni ‘70 nella necropoli veneta del Piovego, ad est di Padova. Dal 2013 è allestita un’esposizione permanente dedicata agli scavi dell’Università di Padova nell’oasi del Fayum, villaggio di Tebtynis, condotti negli anni '30 da Carlo Anti.

Tebtynis (odierna Umm el-Breigât, nel Fayum, Egitto) è un sito legato all’Università di Padova dalla figura
del prof. Carlo Anti che ivi diresse una Missione Archeologica dal 1930 al 1935. Dal 1933 Anti, divenuto
da poco Rettore dell’Università di Padova, non poté più dirigere lo scavo di persona e lo affidò al suo
collaboratore Gilberto Bagnani. Dei materiali concessi per l’esportazione dalle autorità egiziane, solo pochi
furono destinati a Padova, soprattutto materiali iscritti (ostraka e papiri) rinvenuti negli ultimi anni di
scavo mentre altri reperti sono presenti solo in copia come gli elementi architettonici qui esposti.
L’esposizione si completa con una serie di minuti oggetti d’uso quotidiano: perle e amuleti in faience,
monete, fusarole, biglie e pedine.

Un grande impulso per la conoscenza di questa campagna di scavo è venuto negli ultimi anni dallo studio
degli archivi di scavo, condotto tramite una tesi di dottorato. Lo studio sta permettendo di riconoscere o
ricontestualizzare, grazie ai documenti, alcuni reperti presenti in questo ma anche in altri musei in Egitto
e in Italia, presso il Museo Egizio di Torino.

In una bacheca distinta, sul lato destro della stessa sala, è esposto un rarissimo strumento musicale
antico, un flauto di Pan, detto anche syrinx dai nome dell’antica divinità Pan e della ninfa Siringa la quale,
per sfuggirgli, fu trasformata in un fascio di canne fluviali. Il mito è tramandato dal racconto che ne fa il
poeta latino Ovidio, scrittore di età augustea, nella sua opera Metamorfosi. I versi del mito sono riportati
in un pannello apposto presso la vetrinetta.

 

La saletta è dedicata a due antiche civiltà del passato, quella cipriota e quella egizia, delle quali si espone una scelta di reperti per lo più provenienti dalla collezione di Eugenio Neumann di Trieste.
Il primo settore a sinistra è riservato, sul primo ripiano, alla produzione fittile cipriota risalente addirittura al secondo millennio a.C., con in alto piccole brocche e bottiglie (produzioni dette: Red Polished e Red Slip Ware). Sul secondo ripiano si prosegue in senso cronologico con altre due produzioni, ossia Black Slip Ware, con un particolare esemplare di anforetta con anse a punta e un unico esempio in Base Ring I di piccola bottiglia dal lungo collo. Più in basso, trovano spazio un’oinochoe ad orlo trilobato con decorazioni geometriche (si vedano altri due esemplari nella vicina saletta 4), un alabastron a corpo cilindrico e un’affusolata bottiglia monoansata. Termina la sezione cipriota una piccola raccolta di figurine animali e umane e un frammento di rilievo con il volto del dio Pan, oggetti tuttavia molto più tardi dei precedenti.
La sezione egizia occupa i restanti due settori. L’esposizione inizia nel vano centrale, in alto, con esempi di scultura tra cui un frammento di iscrizione da una stele funeraria di IV-I secolo a.C. e un frammento di bassorilievo dipinto risalente al Medio Regno, un periodo compreso tra il 2064 e il 1797 a.C.. Protagonisti incontrastati sono, al centro dell’intera esposizione, gli ushabti, piccole statuine di uso funerario che nell’aldilà si riteneva lavorassero al posto dei loro proprietari. Seguono alcuni amuleti, il più antico dei quali risale al Nuovo Regno (1543-1078 a.C.). Più in basso trovano posto alcuni bronzetti votivi, raffiguranti divinità quali Iside, Osiride, Nefertum e Ptah, tutti di Epoca Tarda (715-332 a.C.). Non sono tuttavia da trascurare altri reperti di età ellenistico-romana, stavolta in terracotta, i quali testimoniano l’ampia diffusione di simboli e culti egizi nell’antichità classica: le lucerne romane con prese a tema isiaco, ad esempio, ma anche varie sculture riferite a divinità quali Arpocrate, Osiride e Zeus Serapide col caratteristico copricapo a forma di modio. Al termine una breve rassegna di imitazioni dell’arte egizia, pratica che dall’Età Tardo-romana proseguì fino al secolo scorso: si tratta di imitazioni di ushabti in terracotta, statuine di divinità, bassorilievi, lucerne e anche iscrizioni.

 

Sono esposti in questa sala una quarantina di vasi geometrici apuli della collezione dei coniugi Michelangelo Merlin e Oplinia Hieke, che coprono un arco cronologico dall’VIII al IV sec.a.C. e sono provenienti da Daunia, Peucezia e Messapia, zone dell’attuale Puglia nelle quali rimasero a lungo inalterate le tradizioni indigene, pur a contatto con la colonizzazione greca prima e l’espansione romana poi.

Il risultato di questa contiguità si nota sia nelle forme, dove, accanto a quelle tradizionali (es. olle daune, trozzella messapica) compaiono vasi rielaborati dalla tradizione greca (kantharos, askos…), sia nei motivi decorativi che vanno da quelli tipicamente geometrici e stilizzati come il reticolo, il meandro spezzato, i volatili (specialmente nella ceramica daunia) sino a motivi fitomorfi più naturalistici quali foglie di mirto, edera, alloro e fiori (specialmente nella ceramica peucetica e messapica).

La scelta operata dal collezionista ha chiaramente privilegiato vasi di grandi dimensioni e di notevole impegno decorativo. Numerose sono le olle daune (databili tra la metà del VI sec. a.C. agli inizi del IV sec. a.C.), sia apode che su piede campaniforme, con elaborate decorazioni a fasce brune o bicrome e motivi geometrici inseriti, specialmente rombi e losanghe, a volte organizzati in spazi metopali sul corpo del vaso. Notevoli anche le inserzioni plastiche come le protomi animali tra le anse.

Proprio le inserzioni plastiche, unite alla varietà di combinazione dei motivi decorativi, pur nell’ambito dello stile geometrico, sono l’elemento di spicco in una serie di attingitoi dauni, databili tra seconda metà del VI - inizi del V sec. a.C.

Nel settore inferiore della vetrina trova posto la ceramica peucetica tra la quale si segnalano tre olle (databili tra seconda metà VII e VI sec. a.C.), con elaborate decorazioni geometriche a fasce, rombi, svastica. Una serie di trozzelle messapiche databili tra metà del V e fine IV sec. a.C. chiude infine l’esposizione.

 

La sala, dedicata alle produzioni greche, comprende sia oggetti dalla collezione dei coniugi Michelangelo Merlin e Oplinia Hieke, che costituiscono il nucleo più prestigioso dell’esposizione, sia oggetti già in precedenza posseduti dal museo e provenienti da altre collezioni o da recuperi.
Partendo dal ripiano in alto a sinistra, sono esposte dapprima ceramiche dell’età del ferro da Cipro a decorazione geometrica tra cui si segnala una tipica bottiglia a botticella con ansa verticale e decorazione bicroma a fasce e cerchi concentrici, databile tra VIII e VII sec. a.C.

A seguito, in ordine cronologico, la produzione ceramica greca di stile corinzio, documentata da una lekythos con grifi in posizione araldica (secondo quarto VIII sec. a.C.), vari vasetti da profumi tra cui un aryballos dipinto con figura di comasta danzante (fine VII sec.a.C.), due amphoriskoi e due skyphoi (fine VII-inizi VI sec. a.C.).

La produzione attica occupa tutto il secondo ripiano e, grazie anche alla donazione Merlin, comprende sia produzione ceramica figurata a figure nere e a figure rosse che produzione non figurata. Le forme documentate sono le coppe, la kylix e lo skyphos, e, tra le forme chiuse, la lekythos e l’hydria. Tra le coppe si ricorda in particolare una coppa ad occhioni, una con fascia figurata con teoria di capri pascenti alternati a pantere della produzione a figure nere, una coppa con gorgoneion interno, uno skyphos a figure rosse con due efebi affrontati con aste in mano e due skyphoi con la civetta. Sulla destra alcuni vasi recuperati da scavi a Comacchio, dove erano probabilmente giunti in antichità quali prodotti di importazione: un grande cratere attico a colonnette (425 a.C. ca.) e un askos figurato (fine V-inizi IV sec. a.C.).

Alla ceramica segue, nel ripiano inferiore, a sinistra, una scelta di produzione coroplastica nella quale spesso le figure umane e quelle delle divinità riprendono le iconografie ben note delle opere d’arte maggiori (vedasi in particolare l’Afrodite o l’Eros). Alle statuette si affiancano oggetti da toeletta (specchio bronzeo e pisside in alabastro) e, al centro, d’uso domestico (lucerne, anfora). Conclude l’excursus un’esposizione, in basso a destra, di piccole sculture in pietra da area insulare e cipriota (V sec. a.C.- II sec. d.C.).

 

La saletta presenta un repertorio delle produzioni venetiche tipiche dall'VIII sec. a.C. alla romanizzazione.
Le forme e le decorazioni maggiormente caratterizzanti la produzione vascolare veneta dell'età del ferro sono qui esposte secondo un criterio tipocronologico dagli esemplari più antichi, in impasto e non torniti (VIII-VII a.C.), inornati o decorati a cordicella o con borchie di bronzo applicate, a quelli torniti e decorati a stralucido o a fasce rosse e nere (VI-V a.C.), fino ad arrivare alla produzione più recente in ceramica grigia (fine V a.C. - età romana).

Viene inoltre dedicato spazio alla riproduzione in gesso di uno dei reperti più noti dell'arte delle situle, la situla Benvenuti (Este, fine VII a.C.), il cui originale, presso il Museo Nazionale Atestino, è in lamina di bronzo decorata a sbalzo e bulino, e costituiva il pregiato contenitore di un vaso ossuario. I registri decorativi che la rivestono sono svolti in un riproduzione acquerellata di Federico Cordenons (1885), accompagnata da una tavola di disegni che riproduce gli oggetti posti all'interno della tomba come corredo per il viaggio nell'aldilà.
Al centro della vetrina si presenta un repertorio di oggetti di ornamento-abbigliamento come fibule e spilloni in bronzo, utilizzati per fermare le vesti, un gancio di cintura in lamina di bronzo, finemente decorato ad incisione, ed elementi di collana in pasta vitrea.

Oltre ad alcuni strumenti legati alle attività quotidiane, in particolare la filatura/tessitura (fusaiole e rocchetti in terracotta), tipicamente femminile, la caccia (coltello) e l'approvvigionamento di legname (ascia), viene evidenziato anche un aspetto per sua natura piuttosto sfuggente della vita dei Veneti antichi, ovvero la manifestazione del sacro, esplicata in prevalenza attraverso la deposizione votiva di vasi, per lo più di piccole dimensioni o addirittura miniaturistici, e di bronzetti raffiguranti devoti/e e guerrieri ma soprattutto cavalli, il cui allevamento rese famosi i Veneti in tutto il mondo antico.

I materiali contrassegnati dalla sigla MNA sono stati cortesemente concessi in deposito dal Museo Nazionale Atestino.
[S.R.]

 

La sala è dedicata interamente alle produzioni magnogreche della Collezione dei coniugi Michelangelo Merlin ed Oplinia Hieke.
L’ordinamento dell’esposizione si svolge qui eccezionalmente per file verticali, per meglio salvaguardare le specificità delle classi di materiali esposte. Da sinistra troviamo dapprima i tre ripiani dedicati alla ceramica a figure rosse apula e lucana (quest’ultima rappresentata da un solo cratere del Pittore di Pisticci).

Questa ceramica fu vista dal prof. Trendall durante i suoi soggiorni di studio negli anni ’70 del secolo scorso in vista della pubblicazione dell’opera di A.D.Trendall - A.Cambitoglou, The Red-Figured Vases of Apulia, I-III, Oxford 1978-1982. I vasi della collezione editi in quel catalogo sono: due pelikai; una oinochoe a bocca trilobata e una patera. Tuttavia notevoli sono anche altri vasi di dimensioni minori quali un lebes gamikos.

Nei tre ripiani centrali trova posto la produzione dello stile di Gnathia: vernice nera sovra dipinta nei tipici colori bianco, giallo oro e rosso e con le tipiche raffigurazioni interamente a motivi vegetali (grappoli, viticci, girali, rami di mirto e di alloro, fiori...) oppure con motivi vegetali intervallati da figurette umane o animali. Tra questa produzione, per lo più di dimensioni contenute, spicca per la sua monumentalità lo skypkos.

Nel terzo settore, comprendente i tre ripiani sulla destra, sono esposti dapprima alcuni vasi a vernice nera, seguiti da altre produzioni a vernice nera sovra dipinta e infine alcune terrecotte figurate tra le quali si segnalano tre statuette femminili fittili realizzate a stampo e un'antefissa fittile con testa di gorgone di produzione tarantina. Chiudono l'esposizione due monete bronzee da Metaponto.

 

In questa saletta sono esposti un corredo funerario e una scelta di materiali in bronzo e in terracotta pertinenti alla necropoli veneta del Piovego a Padova, localizzata alla periferia orientale della città, sulla sponda destra di un antico ramo del Brenta-Bacchiglione, e databile tra il primo quarto del VI e la metà circa del IV secolo a.C. (Este IIIC-IIID2).
La scelta di un'esposizione di tipo "campionario" è stata determinata, in larga misura, dallo stato di avanzamento dei lavori di restauro, che fino ad oggi sono stati condotti esclusivamente a fini scientifici (restauro grafico) e non in vista di una esposizione di tipo museale. Per quest'ultima si sta ora approntando uno specifico progetto.

La necropoli del Piovego, certamente una delle più importanti della città protostorica, rappresenta uno dei campioni funerari più rilevanti per la ricostruzione dell'assetto e delle dinamiche sociali di Padova preromana, e, più in generale, del mondo veneto, durante la piena età del ferro.

Scoperto agli inizi degli anni '60, il sepolcreto fu sistematicamente indagato tra il 1975 e il 1977 dall'allora Istituto di Archeologia dell'Università di Padova (direz.: Elena Di Filippo - Loredana Capuis) e, in seguito, sempre dal medesimo Istituto, tra il 1986 e il 1989 (direz.: Giovanni Leonardi).
Gli scavi 1975-1977, condotti con il "metodo Wheeler" secondo una quadrettatura regolare di m. 5 x 5, portarono all'individuazione e al recupero di almeno 150 sepolture, circa 130 a incinerazione e solo una ventina a inumazione, e di sei tombe di cavalli.

Sul piano della tipologia funeraria, per quanto concerne le tombe a incinerazione, si distinguono quelle "in dolio", nettamente prevalenti a livello numerico, caratterizzate dalla deposizione dell'ossuario contenente i resti cremati dei defunti e gli altri oggetti di corredo all'interno di un grande vaso da derrate, e quelle cosiddette "terragne", contraddistinte dall'alloggiamento dell'ossuario e del corredo all'interno di una fossa strutturata con paratie lignee o in altro materiale deperibile.

Quasi tutte le incinerazioni risultano arricchite, all'esterno, dalla presenza di un consistente deposito di carboni del rogo sul quale venne bruciato il corpo del defunto. Le inumazioni, tutte in semplice fossa, solo eccezionalmente presentano un modesto corredo ceramico.

Numerose sepolture, soprattutto "'in dolio", non furono scavate sul campo ma vennero cassonate, "strappate" e trasportate nei Laboratori di Archeologia dell'Università dove vennero sottoposte ad uno scavo di tipo micro-stratigrafico. Questo approccio portò alla risoluzione di numerosi interrogativi sia in merito alla struttura interna delle tombe e all'assetto originario dei corredi, sia, soprattutto, in merito alla ritualità funeraria.

Gli scavi 1986-1989, infine, condotti in open area ma con un'attenzione particolare alle sezioni, approfondirono le problematiche relative al paleo-ambiente su cui si impostò la necropoli e portarono all'individuazione di circa una decina di nuove sepolture, tra incinerazioni e inumazioni, e di un'eccezionale tomba bisoma di uomo e di cavallo in fossa semplice; l'unico elemento di corredo (o di offerta?) corrisponde a un mezzo ciottolo di selce rinvenuto sul collo del cavallo. L'uomo e il cavallo erano di giovane età, l'animale presenta lo sfondamento volontario del cranio (ben visibile sulla fronte), è quindi da ritenere che sia stato sacrificato. Questa sepoltura è ora esposta presso il Museo Civico Archeologico di Padova.
[M.C. - G.L.]

La saletta illustra principalmente la produzione ceramica e i bronzi di area etrusca.
Iniziando dall'alto a sinistra nella vetrina, si vedono alcuni esemplari di ceramica etrusco-laziale (IX- VII sec. a.C.) e un piatto falisco con incisioni fantastiche che risentono ancora dell'influsso orientalizzante (metà VII sec. a.C.).

Nei ripiani mediani sono esposte testimonianze della produzione etrusca del bucchero sottile databili tra seconda metà del VII sec. a.C. e inizi VI sec. a.C. e del bucchero pesante (fine VII sec. a.C.- fine VI a.C.). A questa produzione ceramica si affiancano alcuni vasi verniciati in nero e imitanti le forme della ceramica greca (kantharoi) .

Infine, ad esemplificazione delle produzioni locali di imitazione, si è voluto esporre nel ripiano inferiore una scelta di oggetti ceramici provenienti dalla necropoli greco- etrusca di Spina (Valli di Comacchio) nella quale compaiono sia ceramiche verniciate in nero che ceramiche figurate (la cosiddetta ceramica alto - adriatica).

Dalle necropoli spinetiche provengono pure i due candelabri bronzei frammentari qui esposti che sono di produzione nord-etrusca e risalgono alla fine del V sec. a.C.
Completano la vetrina due specchi etruschi decorati, sul lato non riflettente, da incisioni a bulino (IV- III sec. a.C.).

Sulla parete destra della saletta sono esposte due urne funerarie etrusche. La prima a sinistra, in terracotta, viene forse da Chiusi e reca, oltre alla figura femminile sul coperchio, la porta dell'Ade raffigurata sulla fronte e il nome della defunta graffito su un lato, mentre l'urna a destra è in tufo e riporta sulla fronte un'elaborata scena di commiato purtroppo molto frammentaria e rimaneggiata.

 

La saletta conserva in primo piano due monumenti iscritti dal territorio.
Si tratta di una stele funeraria frammentaria ad edicola in calcare di Chiampo di provenienza sconosciuta ma probabilmente da ricondurre all'area termale euganea per la presenza di residui di fanghi termali. Le prime due righe contengono una formula sepolcrale in greco.
Il personaggio ricordato è un seviro (una carica pubblica minore), Publius(?) Meclonius Salvianus, che fece il monumento per sé e per due donne le quali, in base all'onomastica, probabilmente possono essere identificate come figlie. Databile tra la metà del I e la metà del II sec. d.C.

Il secondo monumento è un frammento di parapetto in marmo proveniente dagli scassi dei sotterranei del palazzo del Bo in occasione della ristrutturazione del 1938.
Il testo ricorda un Allenius (?) Strabo, personaggio che ricoprì alcune cariche pubbliche (prefetto, tribuno militare, curatore dell'erario) e donò alla città il parapetto (pluteum). Prima metà I sec.d.C.

Il rinvenimento di questa lastra nei pressi del ponte cosiddetto di San Lorenzo, e l'inclinazione del corrimano ne fanno ipotizzare l'utilizzo quale parapetto di una scala di collegamento tra il ponte e il sottostante molo fluviale. Infatti, tra i ponti Altinate e San Lorenzo, si trovavano in epoca romana gli scali principali del porto fluviale cittadino.
I moli erano raccordati, tramite brevi stradine, ad un asse viario con direzione nord-sud che correva parallelo alla sponda destra del fiume Meduacus (attuale Brenta, allora transitante per Padova).
Esso si raccordava a sua volta con gli assi stradali le cui direttrici sono indicate dai ponti romani:
ponte San Lorenzo - via San Francesco - Saccisica
ponte Altinate - via Altinate - Altino
ponte Molino - vie per Asolo, pedemontana, imboccatura della valle del Brenta.

Sul fondo della sala trova posto un modello in scala del ponte di San Lorenzo, uno dei ponti romani di Padova, assieme al ponte Altinate, che meglio conservano la struttura antica.

Il ponte detto di "San Lorenzo" fu rilevato sin dal sec. XVIII (Giovanni Polcastro e Simone Stratico 1773) e ritornò in luce nel 1938 in occasione di scavi eseguiti per i lavori di ristrutturazione del Palazzo del Bo, sede storica dell'Università. Esso infatti si trova con due pile e con la spalla occidentale sotto via San Francesco per circa 40 metri.

 

La saletta presenta una scelta di ceramiche, piccoli bronzi e oggetti d’uso quotidiano, il cosiddetto instrumentum domesticum di età romana. Per una migliore efficacia espositiva e didattica si è deciso di presentare i materiali per temi.

Iniziando dall’angolo in alto a sinistra della vetrina il primo ripiano è dedicato alle divinità e ai culti. Sono esposti alcuni bronzetti tra i quali si riconoscono le effigi di Diana, Minerva, Venere e, provenienti da Nesazio, città istriana, Giove, Dioniso-Bacco ed Ercole. Dal porto fluviale di Padova proviene un pregevole bronzetto di Mercurio che riprende un'iconografia di derivazione lisippea. Accanto, figurette di offerenti ed ex voto (piedi). I ripiani mediano ed inferiore a sinistra della vetrina sono occupati dalle produzioni di lucerne romane dall’età augustea al IV-V sec.d.C. La parte mediana della vetrina è dedicata alla ceramica da mensa, in particolare la terra sigillata, rappresentata da esemplari di produzione italica, nord-italica e gallica sia liscia che figurata. Molti i vasi con il nome del vasaio, di solito posto sul fondo interno del vaso e racchiuso entro un cartiglio in forma di pianta di piede (e per questo detti in planta pedis). Interessante la raccolta di frammenti di coppe in terra sigillata “gallica” con articolate decorazioni a rilievo che sono esposte suddivise per temi (antropomorfo, zoomorfo, fitomorfo). Altre produzioni documentate sono la ceramica a pareti sottili e quella comune verniciata. Nel ripiano sottostante, il tema della tavola e della cucina è ripreso da alcuni oggetti bronzei quali un coltello da cucina, cucchiai, colini, anse di contenitori da tavola e da cucina.
Nell'angolo più a destra della vetrina troviamo altre testimonianze relative alla casa romana e alle attività domestiche. Nel ripiano più alto e in quello centrale un breve accenno alla domus: tra cui lacerti di affresco e di pavimento (uno a mosaico, uno di quadrelli di cotto) alcune antefisse fittili. Nel ripiano inferiore ci sono alcuni strumenti metallici: falcetti, campanelli, un braccio di stadera. L'esposizione si conclude con una serie di pesi da stadera in pietra e alcune anfore, esposte sia in vetrina (i frammenti), sia davanti alla stessa (le anfore intere).

 

La sala è dedicata in gran parte alla produzione vetraria romana. Nelle collezioni del museo sono rappresentate sia produzioni locali e occidentali in generale che produzioni delle aree orientali dell’impero, specialmente palestinesi, siro-palestinesi e cipriote. Si è scelto quindi di esporre i vetri per tipologie mettendo a confronto i due filoni di produzione, occidentale ed orientale.
A seguito della donazione Merlin (2006) sono stati aggiunti due vetri di quella collezione (nn.8 e 39).

Nella vetrina si parte da sinistra in alto con una serie di bottiglie di produzione del Mediterraneo orientale (II-IV sec. d.C.) alle quali seguono nel secondo ripiano altre forme chiuse, olla e bottiglia quadrata, di produzione nord-italica e una anforetta di produzione orientale. Nell’ultimo ripiano in alto a destra una rassegna di grandi balsamari ad orlo appiattito, lungo collo e corpo variamente conformato (I -II sec. d.C.) alternativamente pertinenti a produzioni occidentali e orientali.

Nei ripiani centrali della vetrina, da sinistra, alcune olle globulari di produzione nord-italica introducono il penultimo tema del settore romano delle sale, i corredi funerari. Una delle due olle infatti, chiusa da un piatto/ coperchio, è stata riutilizzata quale contenitore dei resti cremati di un individuo di sesso femminile. Accanto, a titolo esemplificativo, è stato posto un corredo, di provenienza ignota, relativo ad una sepoltura probabilmente maschile come sembra indicare la gemma con aquila. Nell’ultimo ripiano intermedio e nei primi due ripiani inferiori si ritrova un’ampia panoramica (I-IV sec. d.C.) di vetri di dimensioni minori (balsamari, ampolle, una coppetta, un bicchiere a depressioni) alcuni dei quali colorati in giallo, verde, blu e alcuni frammenti di coppe realizzate nelle tecniche “a mosaico”, “a nastri policromi” e il c.d. “millefiori”. Accanto ai balsamari vitrei alcuni in terracotta, assieme a pinzette e spatole in bronzo, richiamano il tema della cosmesi.

Infine, nel ripiano in basso a destra, una curiosità: alcuni oggetti falsi (o antichi rimaneggiati), pervenuti al museo nell’ambito dell’acquisizione di collezioni private, testimoniano il fascino esercitato sui collezionisti di ogni tempo dagli oggetti antichi o presunti tali.